“Dalle origini dell’Ausonia verso la Magna Grecia: gli episodi-chiave di un viaggio tra storia, mito e tradizione”
“Ausonia” è uno degli appellativi spesso utilizzati, nelle fonti letterarie antiche, in riferimento all’Italia meridionale. Tale era, almeno, nella percezione dei Greci, non certo perché quello fosse realmente il nome che le popolazioni indigene locali si erano date. E, del resto, “Αὐσονία”, dal greco “αὔξω” e poi in latino “augěo” vuol dire “crescere, accrescere”: evidentemente, il termine fu coniato in relazione a quella abbondanza di risorse e a quella fertilità del suolo che i Greci avrebbero scoperto in questo territorio e di cui avrebbero a loro volta usufruito. Sono, tuttavia, le stesse fonti letterarie a presentare problemi di interpretazione e a rappresentare una fonte di confusione per chi ne prenda visione. Abitanti dell’Ausonia, infatti, erano gli Ausoni, uno dei più antichi popoli autoctoni della penisola, un popolo del quale, però, fonti diverse riferiscono anche ubicazioni geografiche differenti.
Secondo alcuni autori, gli Ausoni occuparono i territori dell’odierna Campania, per altri l’entroterra calabrese, non nella sua totalità ma a macchia di leopardo, per singole aree, siano quelle alle periferie del catanzarese oppure del reggino o ancora del lametino. Di fronte a pareri e informazioni tanto contrastanti, è difficile offrire un quadro sicuro riguardo alla loro espansione sul territorio e al loro stanziamento. Nel complesso, tuttavia, possiamo ritenere che l’area da loro prediletta, in modo più o meno omogeneo, fosse stata la fascia tirrenica, dal fiume Sele (in Campania) fino allo stretto di Messina, tanto da dar nome ad un mare, quello Ausonio appunto, che solo in seguito sarebbe divenuto il mar Tirreno. Può darsi che, nel corso dei secoli, causa gli scontri con altri popoli indigeni, gli Ausoni abbiano avuto necessità di spostarsi e migrare da una zona all’altra, motivo per cui gli autori antichi li collocano nei territori più disparati. Certo è che si tratta di un ἔθνος esistente sin dall’età del Bronzo medio (1600 a. C.) e che, seppur con alterne vicende, ha avuto, senza alcun dubbio, un ruolo da protagonista in quella che è stata la storia del territorio calabrese in età protostorica. Quella parte di storia di cui, purtroppo, sappiamo solo quel poco che racconteranno gli autori greci dopo l’effettivo contatto e incontro con le etnie locali. Non dimentichiamo, infatti, che prima dell’VIII sec. a. C. la scrittura non esisteva e i popoli indigeni della Calabria, pertanto, non hanno potuto trasmetterci nulla del loro patrimonio culturale e di tradizioni. Bisognerà aspettare che i Greci, con un graduale ma sempre più intenso processo di colonizzazione, si facciano strada nell’Italia meridionale perché si cominci ad avere una migliore conoscenza del territorio, dei popoli che vi erano stanziati e perché se ne tramandino informazioni per iscritto. Nel momento in cui i Greci approdano sul litorale ionico per spostarsi, via via, verso l’interno, trovano non solo gli Ausoni, ma svariati gruppi indigeni che nominano come Enotri, Choni, Morgeti, Siculi.. Quello che dobbiamo immaginare è, insomma, un territorio costellato da “ethne” che i Greci distingueranno attribuendo loro nomi diversi.
Anche se la colonizzazione greca inizia ufficialmente nell’ VIII sec. a. C., con le prime fondazioni coloniali effettive, rapporti tra la Grecia propria e l’Italia meridionale, soprattutto a livello commerciale, erano vitali già in età micenea e, dunque, dal 1200 a. C. Poter attestare archeologicamente questi contatti è stato un passo fondamentale anche per contestualizzare e dare, quanto meno, un fondo di verità ad alcune tradizioni che vorrebbero gli eroi greci, vittoriosi su Troia, giunti in Calabria, causa un possibile naufragio durante il viaggio di ritorno dall’Asia minore verso la Grecia; deviazione questa che avrebbe, tra le altre cose, comportato la fondazione di numerose città proprio per mano di quegli stessi eroi. Come non pensare, del resto, ai Bronzi di Riace? Rinvenuti a 8 m. di profondità appunto presso Riace (in provincia di Reggio Calabria, sul versante ionico), per queste due statue bronzee l’ipotesi che possano rappresentare degli eroi del mito greco merita la stessa considerazione di ipotesi in base alle quali sarebbero stati atleti, eroi eponimi o fondatori. E, tuttavia, la loro storia resta avvolta nel mistero anche se la nudità che li contraddistingue, la “nudità eroica” appunto, ne sottolinea certo uno statuto particolare.
Di fianco ad una “colonizzazione reale” pare, quindi, di assistere ad una “colonizzazione mitica”, “leggendaria”, che nel VI secolo a. C. si concretizzerà in un vero e proprio ciclo di leggende scritte, quello dei “Νόστοι” , i “Ritorni” appunto, che raccontano le avventure degli eroi omerici in Calabria e nel meridione in genere.
Se, da una parte, le neo-fondazioni greche delle coste (è lì, infatti, che i Greci si insediano all’inizio, in città come Crotone, Sibari e Locri) si fanno forti di miti di fondazione che le hanno volute quasi come prescelte o predestinate, indicate dall’oracolo all’eroe fondatore, dall’altra, abbiamo insediamenti di indigeni o popolazioni dette “mixogreche”, indigene per tradizione ma ormai soggette all’influsso greco, che si riallacciano ad una tradizione di matrice omerica per creare un vincolo diretto con il mondo greco, con il chiaro scopo di realizzare a pieno il processo di “ellenizzazione”. In questo quadro si inserirebbe, ad esempio, l’episodio di Filottete, compagno d’arme di Ulisse. Dai poemi omerici sappiamo che Filottete, al quale Eracle aveva donato il suo arco e le sue frecce, morso al piede da un serpente, fu abbandonato su un’isola dai compagni, diretti a combattere a Troia, a causa del cattivo odore emanato dalla sua ferita. Ma, in un momento cruciale della battaglia, quando i Greci, consultato l’oracolo, seppero che solo l’arco e le frecce Eracle avrebbero potuto cambiare le sorti della guerra a loro favore, tornarono a prenderlo e lo portarono a Troia, dove ricevette le cure necessarie e dove, con le sue armi, i Greci riuscirono ad espugnare la città nemica. Alla fine della guerra, stando a Omero, Filottete tornò a casa; tuttavia, in base ad altre e più tarde tradizioni letterarie, sarebbe sbarcato in Calabria dove fondò alcune città alle periferie di Crotone, vale a dire Petelia, Macalla, Chone e Crimisa. Altro caso è quello di Menesteo, anche lui guerriero acheo, fondatore, secondo la leggenda, di Scylletion. E legato alla saga di Ulisse era anche Polite, ucciso, secondo la tradizione, dagli abitanti di Temesa (mitica città, non ancora identificata con certezza ma da collocare, con molta probabilità, a Campora S. Giovanni, nel lametino). A costargli la vita fu l’aver violentato, da ubriaco, una giovane vergine. Tuttavia, trasformatosi in un demone malvagio, il “genio” di Polite scatenò la sua furia contro i cittadini pretendendo ogni anno il sacrificio della fanciulla più bella. Un rituale che si protrasse per secoli, fino a che Eutimo di Locri, esperto nel pugilato, non lo sconfisse. Eutimo, la cui storicità è attestata archeologicamente, al contrario dei casi precedenti, entra in scena nella prima metà del V sec. a. C., nel periodo in cui Locri andava a conquistare proprio Temesa: quasi a voler tradurre nel mito la reale vittoria locrese.
Abbiamo, come è evidente, una integrazione e sovrapposizione consapevole tra mito e storia. Quello di richiamarsi ad un passato leggendario è un espediente che tutte le popolazioni e città sfruttano per creare un’aura fantastica attorno alla loro fondazione ed etnogenesi: i Greci, che andranno a colonizzare le coste della Calabria, lo fanno per legittimare il potere e la posizione acquisiti; le popolazioni autoctone lo fanno nel tentativo di rientrare anche loro nell’orbita di un sistema culturale greco dalle origini antichissime. Emerge, pertanto, allo scorcio del VI- V sec. a. C., un quadro nel quale convivono, in modo pacifico e in un rapporto di reciproco scambio culturale, indigeni da una parte e Greci dall’altra; la colonizzazione si presenta, in questo senso, come la storia di una fusione etnica e culturale nella quale, tanto l’elemento greco quanto quello indigeno (degli Ausoni, dei Choni, degli Enotri o dei Morgeti che fossero) hanno la loro parte. È come se la “grecità”, viaggiando sulle navi degli eroi omerici, dirottati in Calabria durante i loro viaggi di ritorno, e poi tramite la colonizzazione di VIII e VII sec. a. C., si fosse radicata sul territorio e fosse cresciuta a tal punto da diventare “Megàle”, “Grande”, appunto la “MegàleHellás” o Magna Grecia. Riguardo all’esatto momento storico in cui nasce la definizione specifica di Magna Grecia non c’è, tuttora, pieno accordo tra gli studiosi. Nonostante ciò, in tanti sembrano concordi nel ricercarne un legame con fiorenti scuole e dottrine filosofiche e col Pitagorismo nello specifico, più ancora che con una grandezza di tipo territoriale, di risorse e fertilità del suolo. Crotone, dove Pitagora giunge da Samo e fonda la sua scuola, diventerà l’epicentro di un fenomeno di tipo culturale che andrà ad investire un comprensorio territoriale sempre più ampio, quello che diventerà la Magna Grecia nell’accezione moderna, cioè l’Italia meridionale. Ma è un fenomeno graduale, che parte dalla Calabria e, per l’esattezza, da una parte di essa, appunto il territorio crotoniate e le città costiere che davano sul golfo di Squillace. Magna Grecia doveva essere, in origine, il territorio compreso tra Locri e il Capo Lacinio. Pare essere stata questa, in principio, la “MegàleHellás”, almeno se si dà credito ad alcune fonti letterarie: Plinio, ad esempio, ci dice che «da Locri ha inizio il tratto dell’Italia, chiamata Magna Grecia, che si ritrae in tre golfi del mare Ausonio, poiché gli Ausoni vi si stabilirono per primi»; Polibio, nel raccontare degli incendi ai sinedri pitagorici, specifica che ebbero luogo «in quella che allora era detta Megále Hellás»; e ancora Strabone, nel descrivere l’Italía, dice che «i Greci conquistarono, portando avanti un processo iniziato fin dai tempi della guerra di Troia, sia gran parte dell’entroterra che della Sicilia». Ne ricaviamo, innanzitutto, che la Calabria grossomodo (e senza voler specificare confini precisi) era detta Italía (da “vitulus” e, quindi, la “terra del vitello”, in relazione all’importanza dell’allevamento, oppure da Italo, re degli Itali, i popoli che andarono a sovrapporsi agli altri indigeni); che il toponimo Italía (che, nel corso di secoli avrebbe valicato i confini della Calabria estendendosi sempre più a nord) indicava un territorio ben distinto dalla Σικἑλία; e, in ultimo, risulta che, grazie a Pitagora e alla sua scuola, una parte dell’ Italía divenne Magna Grecia. La “grandezza” di questa nuova Grecia è, in primo luogo, una “doctrinarum magnitudo”, una grandezza di pensiero, di cultura, di dottrina. Dunque, non è un modo per sottolineare un paragone con la Grecia propria, non è una formula di confronto o opposizione rispetto all’altra Grecia, è piuttosto una realtà locale in via di sviluppo, una realtà che cresce imponendo a tutti la sua nuova denominazione. La Magna Grecia, che nasce in Italía, finirà per investirla nella sua totalità, varcandone i confini a sud, oltre lo stretto di Messina (per arrivare in Sicilia) e a nord (inglobando territori allora in mano agli indigeni). L’espansione della Magna Grecia, insomma, è prima di tutto un’espansione culturale e poi territoriale; quest’ultima, anzi, ne è la diretta conseguenza. Il Pitagorismo, che si lega a Pitagora ma anche a tutti i suoi seguaci e successori, si configura come una fucina di cultura, di educazione politica; non è soltanto una scuola filosofica o di matematica, ma una corrente di pensiero, una dottrina mistico-religiosa che trova la sua ragion d’essere nella volontà di attuare un processo di rigenerazione morale e spirituale che, attraverso lo studio e la pratica delle arti, si rivolge alla costruzione di un sistema civico e sociale forte e che, pur iniziando con Pitagora, non si esaurirà con la sua morte, ma si irradierà sempre più sul territorio.
In sostanza, lo sviluppo della Magna Grecia si dispiegò attraverso un processo di crescita che ebbe inizio con l’impianto dei primi germi della grecità portati dagli eroi omerici, che proseguì e si rinvigorì con la fondazione di colonie lungo la costa ionica e poi andò a inglobare anche l’entroterra. È nel momento in cui l’Hellenicón, vale a dire l’elemento greco, si stabilizza, coinvolge e si integra con l’elemento locale che subentra il concetto di grandezza.
Dunque, per concludere, avere ben presente un tracciato storico di questo tipo, seppur sommario e molto sintetico, può diventare essenziale per prendere coscienza di cosa, veramente, sia stata la Magna Grecia. Specificare come all’origine del nome possa esserci stato il Pitagorismo e, quindi, circoscrivere l’area da cui ha preso le mosse non dev’essere un modo per enfatizzare il ruolo avuto da una città o da una comunità in particolare nel processo di crescita; al contrario, deve servire solo a comprendere quale sia stata la scintilla dalla quale si è originata una tale tradizione e, perché no, a tentare, oggi, di restituire alla nostra Magna Grecia un po’ di quella grandezza che si è conquistata e che le è appartenuta in passato.
Raffella Lupia
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